CRITICI

Ōki Izumi – Gillo Dorfles

 

Il vetro utilizzato in lamine rettangolari sovrapposte a formare complesse costruzioni è diventato il mezzo espressivo costante per Ōki Izumi: un mezzo che, – nella sua trasparenza ma rigidità, evanescenza ma solidità – costituisce uno stimolo e un freno alla fantasia dell’artista giapponese da dodici anni ormai attiva in Italia. Un freno, perché il vetro è un materiale fragile e monocromo, poco duttile e frigido. Uno stimolo, perché permette le più svariate combinazioni, dalle semplici superfici, dagli elementari poliedri, alle più vaste e complesse costruzioni, quasi architettoniche, d’un’ architettura in miniatura, come quelle del “meccano” o del “Lego”, ma dove l’elemento giocoso si è trasformato in una sorta di progettualità visionaria.

E’, anzi, proprio da queste costruzioni pseudo-architettoniche che Ōki è partita, già negli anni ottanta, coll’intenzione di edificare una sorta di città utopica, dove ogni “edificio” rivela i misteri del suo spazio interno, attraverso la trasparenza delle pareti, e dove i muri, le solette, le scale in miniatura, permettono di concepire delle costruzioni che sono al tempo stesso durature ed effimere, inconsistenti e perenni. Questo spiega come anche la scultrice abbia potuto ideare un progetto, come quello per il Ponte dell’Accademia di Venezia, tutto realizzabile in vetro e che costituisce una sorta di opus magnum a coronare questa sua fase architettonica.

E’ forse proprio il contrasto tra la rigidità e il rigore delle lastre vitree e la loro evanescente presenza ad avere attratto la volontà ideativa di Ōki: da un lato sollecitando la sua ansia di precisione, di ordine numerico, di quasi ossessiva ricerca di proporzioni armoniche e numeriche, (così lontane da quella che di solito si considera la mentalità estremorientale); ma, dall’altro lato evidenziando l’idea del vuoto – questa costante del pensiero zen – dell’intervallo, dell’aperto – chiuso – che, con il materiale vitreo, poteva agevolmente venire espressa.

E’ così che abbiamo assistito a un progressivo allontanarsi dell’artista dal rigorismo un po’ troppo insistito e costrittivo che accomunava le sue opere a quella di molta arte minimale, regalandole in un limbo aereo ma limitato da una geometrizzazzione inflessibile.

Questo allontanamento è stato propizio perché l’ha condotta a una fase più matura e più complessa nella quale il materiale è stato sfruttato soprattutto per le sue qualità luminose e di trasparenza, permettendole di realizzare ampie composizioni e vere proprie “ambientazioni” (come quella esposta alla galleria progetto Volpini, dove l’intero ambiente veniva ad essere modulato e vivificato dalla presenza d’una complessa costruzioni di elementi isolati ma tra di loro confluenti).

Con l’abbandono delle costruzioni architettoniche e degli elementari corpi geometrici, sono sorte, inoltre quelle composizioni, nelle, quali, attraverso la cesura abilmente calibrata delle singole lamine e l’incidenza luminosa così ottenuta, Ōki Izumi ha realizzato forme diverse dove si evidenziano – nella massa trasparente – misteriosi segni (ottenuti, appunto con la tecnica intervallare di cui sopra.) Questi segni – a forma di curva, spirale, di lettera alfabetica – vengono a stagliarsi, impalpabili e fluttuanti, nel contesto dell’opera, sia che questa abbia la sagoma d’un parallelepipedo, sia che venga a comporre strutture più complesse come nel caso recente di alcune pseudo-seggiole o di contenitori metallici, entro i quali (o nello schienale delle quali) la massa vitrea viene a costituire quasi un elemento organico, una traslucida apparizione incorporea. In questo modo, le forme create dalla incidenza luminosa che gioca negli intervalli suscitati dalla frattura delle lamine sovrapposte, aggiungono al rigorismo geometrizzante di un tempo e una diversa e più soave parvenza: come se, nella matrice del vetro si fosse incarnata un’essenza immateriale ma immutabile e perenne.

Gennaio 1991